Museo della città: Londra, Roma e l’importanza dell’identità

Quando si visita una città, in special modo se la città in questione è una delle grandi capitali mondiali, occorre fare i conti con la complessità della sua compagine rispetto al poco tempo a disposizione per farsene un’idea e comprendere realmente le sfumature del luogo prescelto per la visita. La soluzione più naturale è quella di avere a disposizione un museo pensato proprio per la funzione di fornire uno sguardo generale, strutturandolo a più livelli di approfondimento e di rimandi al contesto urbano, generalmente realizzato in primis per sensibilizzare chi in quella città ci abita, plasmandone ed educandone l’animo civico tale da trasformarlo da residente in cittadino a tutti gli effetti. Tale museo, essendo portavoce dell’intera città, deve avere una propria identità, immediatamente percepibile dall’avventore occasionale, dal turista più smaliziato, dal cittadino stesso: già dal logo deve essere in grado di esprimere la propria particolarità, il proprio valore aggiunto in quanto sintesi efficace della multiformità di una realtà pluristratificata ed in continua evoluzione.

Il Museo di Londra, fondato nel 1976, racconta la vita e l’evoluzione della capitale inglese dalla preistoria ad oggi. Si tratta di un museo all’avanguardia, orientato alla cittadinanza innanzitutto – essendo qui racchiuso tutto il background della città in cui vivono, articolato anche in una sezione dedicata ai Docks (l’area portuale) e alla parte archeologica vera e propria – e quindi ai turisti, ai quali viene offerta una visuale a 360 gradi sulla città che sono andati a visitare: attratti da altri monumenti ed istituzioni ben più celebri – ad esempio, il British Museum – vengono qui sensibilizzati e fatti partecipi delle vicende cittadine. Per meglio comunicare la propria missione, nel 2009 ha avviato una sperimentazione riguardo il logo, alla ricerca di una identità per sé e le due istituzioni connesse. Il risultato, progettato da londinese Coley Porter Bell, è quello sottostante:

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Immagini: http://www.underconsideration.com/brandnew/archives/london_over_time_as_a_logo.php#.U-TrU_l_uSo

Le diverse aree colorate sono rappresentazioni schematiche dell’evoluzione della pianta di Londra, dalle sue origini fino ai giorni nostri. Per le Docklands la dominante è il colore azzurro, legato all’acqua; per l’archeologia, il marrone. In una maniera semplice ed immediata, moderno e bello a vedersi, il logo fornisce ai futuri visitatori una sintesi visuale e concettuale di tutto ciò che potranno vedere nelle sale del museo, rimando ipertestuale alla città ed alla sua complessità.

A Roma, invece, cosa accade? Anzi, cosa non accade: non esiste, nonostante se ne parli grossomodo da un secolo, un museo della città. Il facente funzione, al momento, è il Museo di Roma di Palazzo Braschi, che però inizia la sua narrazione dal Medioevo, con un orientamento spiccatamente artistico. La visione di Roma, invece, dovrebbe spaziare liberamente, con un maggiore accento – inevitabile quanto comprensibile – sull’archeologia. “Il patrimonio archeologico, in particolare, è privo di narrazioni e ricostruzioni. Il museo della città dietro Santa Maria in Cosmedin, ideato da Veltroni, non ha fatto passi avanti: sarebbe un luogo per conoscere, che compenserebbe la transumanza [del turismo mordi e fuggi, ndr]”, scriveva Andrea Carandini sul Corriere della Sera [Roma, Mercoledì 5 Giugno, 2013]. Era invece il 23 dicembre 2009 quando uscì invece questa notizia: http://roma.repubblica.it/dettaglio/il-museo-della-citta-di-roma-avra-un-cuore-digitale/1812769. “Non sarà un’esposizione di collezioni di opere d’arte” – disse l’assessore dell’epoca – “ma un luogo per capire nel profondo la complessità storica di Roma. Diventerà lo strumento per capire la città più antica del mondo [per] turisti e cittadini”. Ovviamente non se ne fece nulla. Roma è dunque tuttora priva di un luogo sede della narrazione di sé stessa, frammentata tra una miriade di musei purtroppo sconosciuti al più dei residenti, figurarsi ai visitatori che rimangono nell’Urbe lo spazio di un fine settimana, in media.
Fermiamoci allora all’esistente, al circuito museale del Comune di Roma. Ecco il logo:

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Fatta salva l’idea di unificare la gestione in un unico circuito, in una realtà orientata verso la personalizzazione e l’addizione di valori quale particolarità dovrebbe esprimere tale grafica? La comunicazione – e dunque la compartecipazione dell’utente – inizia già dall’elemento primo identificativo: ma qui regna l’anonimato e l’insipidezza più spinta. Speculare è il portale web, un maelstrom di informazioni ridondanti ed inutili, in cui i pochi contenuti sono sacrificati ad una struttura farraginosa che schiaccia l’individualità del museo stesso. Un portale dovrebbe avere – come dice il nome stesso – funzione di smistamento degli interessi, di accoglienza, di guida, di relazioni e percorsi dinamici, non di vetrina statica. Tra frammentarietà ed anonimato, Roma risulta dunque incapace di raccontarsi, di coinvolgere il turista – che si accontenterà per lo più di autoscatti nei punti più rappresentativi – e, peggio, la cittadinanza stessa, che risulterà gradualmente sempre più disaffezionata verso di essa.

Tutto per l’incapacità di comunicare, lì dove il logo – incapace di trasformarsi in brand – è il sintomo più evidente.